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data(utf-8) - La sete natural che mai non sazia se non con l'acqua onde la femminetta samaritana domandò la grazia, mi travagliava, e pungeami la fretta per la 'mpacciata via dietro al mio duca, e condoleami a la giusta vendetta. Ed ecco, sì come ne scrive Luca che Cristo apparve a' due ch'erano in via, già surto fuor de la sepulcral buca, ci apparve un'ombra, e dietro a noi venìa, dal piè guardando la turba che giace; né ci addemmo di lei, sì parlò pria, dicendo: «O frati miei, Dio vi dea pace». Noi ci volgemmo sùbiti, e Virgilio rendéli 'l cenno ch'a ciò si conface. Poi cominciò: «Nel beato concilio ti ponga in pace la verace corte che me rilega ne l'etterno essilio». «Come!», diss' elli, e parte andavam forte: «se voi siete ombre che Dio sù non degni, chi v'ha per la sua scala tanto scorte?». E 'l dottor mio: «Se tu riguardi a' segni che questi porta e che l'angel profila, ben vedrai che coi buon convien ch'e' regni. Ma perché lei che dì e notte fila non li avea tratta ancora la conocchia che Cloto impone a ciascuno e compila, l'anima sua, ch'è tua e mia serocchia, venendo sù, non potea venir sola, però ch'al nostro modo non adocchia. Ond' io fui tratto fuor de l'ampia gola d'inferno per mostrarli, e mosterrolli oltre, quanto 'l potrà menar mia scola. Ma dimmi, se tu sai, perché tai crolli diè dianzi 'l monte, e perché tutto ad una parve gridare infino a' suoi piè molli». Sì mi diè, dimandando, per la cruna del mio disio, che pur con la speranza si fece la mia sete men digiuna. Quei cominciò: «Cosa non è che sanza ordine senta la religïone de la montagna, o che sia fuor d'usanza. Libero è qui da ogne alterazione: di quel che 'l ciel da sé in sé riceve esser ci puote, e non d'altro, cagione. Per che non pioggia, non grando, non neve, non rugiada, non brina più sù cade che la scaletta di tre gradi breve; nuvole spesse non paion né rade, né coruscar, né figlia di Taumante, che di là cangia sovente contrade; secco vapor non surge più avante ch'al sommo d'i tre gradi ch'io parlai, dov' ha 'l vicario di Pietro le piante. Trema forse più giù poco o assai; ma per vento che 'n terra si nasconda, non so come, qua sù non tremò mai. Tremaci quando alcuna anima monda sentesi, sì che surga o che si mova per salir sù; e tal grido seconda. De la mondizia sol voler fa prova, che, tutto libero a mutar convento, l'alma sorprende, e di voler le giova. Prima vuol ben, ma non lascia il talento che divina giustizia, contra voglia, come fu al peccar, pone al tormento. E io, che son giaciuto a questa doglia cinquecent' anni e più, pur mo sentii libera volontà di miglior soglia: però sentisti il tremoto e li pii spiriti per lo monte render lode a quel Segnor, che tosto sù li 'nvii». Così ne disse; e però ch'el si gode tanto del ber quant' è grande la sete, non saprei dir quant' el mi fece prode. E 'l savio duca: «Omai veggio la rete che qui vi 'mpiglia e come si scalappia, perché ci trema e di che congaudete. Ora chi fosti, piacciati ch'io sappia, e perché tanti secoli giaciuto qui se', ne le parole tue mi cappia». «Nel tempo che 'l buon Tito, con l'aiuto del sommo rege, vendicò le fóra ond' uscì 'l sangue per Giuda venduto, col nome che più dura e più onora era io di là», rispuose quello spirto, «famoso assai, ma non con fede ancora. Tanto fu dolce mio vocale spirto, che, tolosano, a sé mi trasse Roma, dove mertai le tempie ornar di mirto. Stazio la gente ancor di là mi noma: cantai di Tebe, e poi del grande Achille; ma caddi in via con la seconda soma. Al mio ardor fuor seme le faville, che mi scaldar, de la divina fiamma onde sono allumati più di mille; de l'Eneïda dico, la qual mamma fummi, e fummi nutrice, poetando: sanz' essa non fermai peso di dramma. E per esser vivuto di là quando visse Virgilio, assentirei un sole più che non deggio al mio uscir di bando». Volser Virgilio a me queste parole con viso che, tacendo, disse 'Taci'; ma non può tutto la virtù che vuole; ché riso e pianto son tanto seguaci a la passion di che ciascun si spicca, che men seguon voler ne' più veraci. Io pur sorrisi come l'uom ch'ammicca; per che l'ombra si tacque, e riguardommi ne li occhi ove 'l sembiante più si ficca; e «Se tanto labore in bene assommi», disse, «perché la tua faccia testeso un lampeggiar di riso dimostrommi?». Or son io d'una parte e d'altra preso: l'una mi fa tacer, l'altra scongiura ch'io dica; ond' io sospiro, e sono inteso dal mio maestro, e «Non aver paura», mi dice, «di parlar; ma parla e digli quel ch'e' dimanda con cotanta cura». Ond' io: «Forse che tu ti maravigli, antico spirto, del rider ch'io fei; ma più d'ammirazion vo' che ti pigli. Questi che guida in alto li occhi miei, è quel Virgilio dal qual tu togliesti forte a cantar de li uomini e d'i dèi. Se cagion altra al mio rider credesti, lasciala per non vera, ed esser credi quelle parole che di lui dicesti». Già s'inchinava ad abbracciar li piedi al mio dottor, ma el li disse: «Frate, non far, ché tu se' ombra e ombra vedi». Ed ei surgendo: «Or puoi la quantitate comprender de l'amor ch'a te mi scalda, quand' io dismento nostra vanitate, trattando l'ombre come cosa salda». CANTO XXII [Canto XXII, dove tratta de la qualità del sesto girone, dove si punisce e purga la colpa e vizio de la gola; e qui narra Stazio sua purgazione e sua conversione a la cristiana fede.] Già era l'angel dietro a noi rimaso, l'angel che n'avea vòlti al sesto giro, avendomi dal viso un colpo raso; e quei c'hanno a giustizia lor disiro detto n'avea beati, e le sue voci con 'sitiunt', sanz' altro, ciò forniro. E io più lieve che per l'altre foci m'andava, sì che sanz' alcun labore seguiva in sù li spiriti veloci; quando Virgilio incominciò: «Amore, acceso di virtù, sempre altro accese, pur che la fiamma sua paresse fore; onde da l'ora che tra noi discese nel limbo de lo 'nferno Giovenale, che la tua affezion mi fé palese, mia benvoglienza inverso te fu quale più strinse mai di non vista persona, sì ch'or mi parran corte queste scale. Ma dimmi, e come amico mi perdona se troppa sicurtà m'allarga il freno, e come amico omai meco ragiona: come poté trovar dentro al tuo seno loco avarizia, tra cotanto senno di quanto per tua cura fosti pieno?». Queste parole Stazio mover fenno un poco a riso pria; poscia rispuose: «Ogne tuo dir d'amor m'è caro cenno. Veramente più volte appaion cose che danno a dubitar falsa matera per le vere ragion che son nascose. La tua dimanda tuo creder m'avvera esser ch'i' fossi avaro in l'altra vita, forse per quella cerchia dov' io era. Or sappi ch'avarizia fu partita troppo da me, e questa dismisura migliaia di lunari hanno punita. E se non fosse ch'io drizzai mia cura, quand' io intesi là dove tu chiame, crucciato quasi a l'umana natura: 'Per che non reggi tu, o sacra fame de l'oro, l'appetito de' mortali?', voltando sentirei le giostre grame. Allor m'accorsi che troppo aprir l'ali potean le mani a spendere, e pente'mi così di quel come de li altri mali. Quanti risurgeran coi crini scemi per ignoranza, che di questa pecca toglie 'l penter vivendo e ne li stremi! E sappie che la colpa che rimbecca per dritta opposizione alcun peccato, con esso insieme qui suo verde secca; però, s'io son tra quella gente stato che piange l'avarizia, per purgarmi, per lo contrario suo m'è incontrato». «Or quando tu cantasti le crude armi de la doppia trestizia di Giocasta», disse 'l cantor de' buccolici carmi, «per quello che Clïò teco lì tasta, non par che ti facesse ancor fedele la fede, sanza qual ben far non basta. Se così è, qual sole o quai candele ti stenebraron sì, che tu drizzasti poscia di retro al pescator le vele?». Ed elli a lui: «Tu prima m'invïasti verso Parnaso a ber ne le sue grotte, e prima appresso Dio m'alluminasti. Facesti come quei che va di notte, che porta il lume dietro e sé non giova, ma dopo sé fa le persone dotte, quando dicesti: 'Secol si rinova; torna giustizia e primo tempo umano, e progenïe scende da ciel nova'. Per te poeta fui, per te cristiano: ma perché veggi mei ciò ch'io disegno, a colorare stenderò la mano. Già era 'l mondo tutto quanto pregno de la vera credenza, seminata per li messaggi de l'etterno regno; e la parola tua sopra toccata si consonava a' nuovi predicanti; ond' io a visitarli presi usata. Vennermi poi parendo tanto santi, che, quando Domizian li perseguette, sanza mio lagrimar non fur lor pianti; e mentre che di là per me si stette, io li sovvenni, e i lor dritti costumi fer dispregiare a me tutte altre sette. E pria ch'io conducessi i Greci a' fiumi di Tebe poetando, ebb' io battesmo; ma per paura chiuso cristian fu'mi, lungamente mostrando paganesmo; e questa tepidezza il quarto cerchio cerchiar mi fé più che 'l quarto centesmo. Tu dunque, che levato hai il coperchio che m'ascondeva quanto bene io dico, mentre che del salire avem soverchio, dimmi dov' è Terrenzio nostro antico, Cecilio e Plauto e Varro, se lo sai: dimmi se son dannati, e in qual vico». «Costoro e Persio e io e altri assai», rispuose il duca mio, «siam con quel Greco che le Muse lattar più ch'altri mai, nel primo cinghio del carcere cieco; spesse fïate ragioniam del monte che sempre ha le nutrice nostre seco. Euripide v'è nosco e Antifonte, Simonide, Agatone e altri piùe Greci che già di lauro ornar la fronte. Quivi si veggion de le genti tue Antigone, Deïfile e Argia, e Ismene sì trista come fue. Védeisi quella che mostrò Langia; èvvi la figlia di Tiresia, e Teti, e con le suore sue Deïdamia». Tacevansi ambedue già li poeti, di novo attenti a riguardar dintorno, liberi da saliri e da pareti; e già le quattro ancelle eran del giorno rimase a dietro, e la quinta era al temo, drizzando pur in sù l'ardente corno, quando il mio duca: «Io credo ch'a lo stremo le destre spalle volger ne convegna, girando il monte come far solemo». Così l'usanza fu lì nostra insegna, e prendemmo la via con men sospetto per l'assentir di quell' anima degna. Elli givan dinanzi, e io soletto di retro, e ascoltava i lor sermoni, ch'a poetar mi davano intelletto. Ma tosto ruppe le dolci ragioni un alber che trovammo in mezza strada, con pomi a odorar soavi e buoni; e come abete in alto si digrada di ramo in ramo, così quello in giuso, cred' io, perché persona sù non vada. Dal lato onde 'l cammin nostro era chiuso, cadea de l'alta roccia un liquor chiaro e si spandeva per le foglie suso. Li due poeti a l'alber s'appressaro; e una voce per entro le fronde gridò: «Di questo cibo avrete caro». Poi disse: «Più pensava Maria onde fosser le nozze orrevoli e intere, ch'a la sua bocca, ch'or per voi risponde. E le Romane antiche, per lor bere, contente furon d'acqua; e Danïello dispregiò cibo e acquistò savere. Lo secol primo, quant' oro fu bello, fé savorose con fame le ghiande, e nettare con sete ogne ruscello. Mele e locuste furon le vivande che nodriro il Batista nel diserto; per ch'elli è glorïoso e tanto grande quanto per lo Vangelio v'è aperto». CANTO XXIII [Canto XXIII, dove si tratta del sopradetto girone e di quella medesima colpa de la gola, e sgrida contro a le donne fiorentine; dove truova Forese de' Donati di Fiorenze col quale molto parla.] Mentre che li occhi per la fronda verde ficcava ïo sì come far suole chi dietro a li uccellin sua vita perde, lo più che padre mi dicea: «Figliuole, vienne oramai, ché 'l tempo che n'è imposto più utilmente compartir si vuole». Io volsi 'l viso, e 'l passo non men tosto, appresso i savi, che parlavan sìe, che l'andar mi facean di nullo costo. Ed ecco piangere e cantar s'udìe 'Labïa mëa, Domine' per modo tal, che diletto e doglia parturìe. «O dolce padre, che è quel ch'i' odo?», comincia' io; ed elli: «Ombre che vanno forse di lor dover solvendo il nodo». Sì come i peregrin pensosi fanno, giugnendo per cammin gente non nota, che si volgono ad essa e non restanno, così di retro a noi, più tosto mota, venendo e trapassando ci ammirava d'anime turba tacita e devota. Ne li occhi era ciascuna oscura e cava, palida ne la faccia, e tanto scema che da l'ossa la pelle s'informava. Non credo che così a buccia strema Erisittone fosse fatto secco, per digiunar, quando più n'ebbe tema. Io dicea fra me stesso pensando: 'Ecco la gente che perdé Ierusalemme, quando Maria nel figlio diè di becco!'. Parean l'occhiaie anella sanza gemme: chi nel viso de li uomini legge 'omo' ben avria quivi conosciuta l'emme. Chi crederebbe che l'odor d'un pomo sì governasse, generando brama, e quel d'un'acqua, non sappiendo como? Già era in ammirar che sì li affama, per la cagione ancor non manifesta di lor magrezza e di lor trista squama, ed ecco del profondo de la testa volse a me li occhi un'ombra e guardò fiso; poi gridò forte: «Qual grazia m'è questa?». Mai non l'avrei riconosciuto al viso; ma ne la voce sua mi fu palese ciò che l'aspetto in sé avea conquiso. Questa favilla tutta mi raccese mia conoscenza a la cangiata labbia, e ravvisai la faccia di Forese. «Deh, non contendere a l'asciutta scabbia che mi scolora», pregava, «la pelle, né a difetto di carne ch'io abbia; ma dimmi il ver di te, dì chi son quelle due anime che là ti fanno scorta; non rimaner che tu non mi favelle!». «La faccia tua, ch'io lagrimai già morta, mi dà di pianger mo non minor doglia», rispuos' io lui, «veggendola sì torta. Però mi dì, per Dio, che sì vi sfoglia; non mi far dir mentr' io mi maraviglio, ché mal può dir chi è pien d'altra voglia». Ed elli a me: «De l'etterno consiglio cade vertù ne l'acqua e ne la pianta rimasa dietro, ond' io sì m'assottiglio. Tutta esta gente che piangendo canta per seguitar la gola oltra misura, in fame e 'n sete qui si rifà santa. Di bere e di mangiar n'accende cura l'odor ch'esce del pomo e de lo sprazzo che si distende su per sua verdura. E non pur una volta, questo spazzo girando, si rinfresca nostra pena: io dico pena, e dovria dir sollazzo, ché quella voglia a li alberi ci mena che menò Cristo lieto a dire 'Elì', quando ne liberò con la sua vena». E io a lui: «Forese, da quel dì nel qual mutasti mondo a miglior vita, cinqu' anni non son vòlti infino a qui. Se prima fu la possa in te finita di peccar più, che sovvenisse l'ora del buon dolor ch'a Dio ne rimarita, come se' tu qua sù venuto ancora? Io ti credea trovar là giù di sotto, dove tempo per tempo si ristora». Ond' elli a me: «Sì tosto m'ha condotto a ber lo dolce assenzo d'i martìri la Nella mia con suo pianger dirotto. Con suoi prieghi devoti e con sospiri tratto m'ha de la costa ove s'aspetta, e liberato m'ha de li altri giri. Tanto è a Dio più cara e più diletta la vedovella mia, che molto amai, quanto in bene operare è più soletta; ché la Barbagia di Sardigna assai ne le femmine sue più è pudica che la Barbagia dov' io la lasciai. O dolce frate, che vuo' tu ch'io dica? Tempo futuro m'è già nel cospetto, cui non sarà quest' ora molto antica, nel qual sarà in pergamo interdetto a le sfacciate donne fiorentine l'andar mostrando con le poppe il petto. Quai barbare fuor mai, quai saracine, cui bisognasse, per farle ir coperte, o spiritali o altre discipline? Ma se le svergognate fosser certe di quel che 'l ciel veloce loro ammanna, già per urlare avrian le bocche aperte; ché, se l'antiveder qui non m'inganna, prima fien triste che le guance impeli colui che mo si consola con nanna. Deh, frate, or fa che più non mi ti celi! vedi che non pur io, ma questa gente tutta rimira là dove 'l sol veli». Per ch'io a lui: «Se tu riduci a mente qual fosti meco, e qual io teco fui, ancor fia grave il memorar presente. Di quella vita mi volse costui che mi va innanzi, l'altr' ier, quando tonda vi si mostrò la suora di colui», e 'l sol mostrai; «costui per la profonda notte menato m'ha d'i veri morti con questa vera carne che 'l seconda. Indi m'han tratto sù li suoi conforti, salendo e rigirando la montagna che drizza voi che 'l mondo fece torti. Tanto dice di farmi sua compagna che io sarò là dove fia Beatrice; quivi convien che sanza lui rimagna. Virgilio è questi che così mi dice», e addita'lo; «e quest' altro è quell' ombra per cuï scosse dianzi ogne pendice lo vostro regno, che da sé lo sgombra». CANTO XXIV [Canto XXIV nel quale si tratta del sopradetto sesto girone e di quelli che si purgano del predetto peccato e vizio de la gola; e predicesi qui alcune cose a venire de la città lucana.] Né 'l dir l'andar, né l'andar lui più lento facea, ma ragionando andavam forte, sì come nave pinta da buon vento; e l'ombre, che parean cose rimorte, per le fosse de li occhi ammirazione traean di me, di mio vivere accorte. E io, continüando al mio sermone, dissi: «Ella sen va sù forse più tarda che non farebbe, per altrui cagione. Ma dimmi, se tu sai, dov' è Piccarda; dimmi s'io veggio da notar persona tra questa gente che sì mi riguarda». «La mia sorella, che tra bella e buona non so qual fosse più, trïunfa lieta ne l'alto Olimpo già di sua corona». Sì disse prima; e poi: «Qui non si vieta di nominar ciascun, da ch'è sì munta nostra sembianza via per la dïeta. Questi», e mostrò col dito, «è Bonagiunta, Bonagiunta da Lucca; e quella faccia di là da lui più che l'altre trapunta ebbe la Santa Chiesa in le sue braccia: dal Torso fu, e purga per digiuno l'anguille di Bolsena e la vernaccia». Molti altri mi nomò ad uno ad uno; e del nomar parean tutti contenti, sì ch'io però non vidi un atto bruno. Vidi per fame a vòto usar li denti Ubaldin da la Pila e Bonifazio che pasturò col rocco molte genti. Vidi messer Marchese, ch'ebbe spazio già di bere a Forlì con men secchezza, e sì fu tal, che non si sentì sazio. Ma come fa chi guarda e poi s'apprezza più d'un che d'altro, fei a quel da Lucca, che più parea di me aver contezza. El mormorava; e non so che «Gentucca» sentiv' io là, ov' el sentia la piaga de la giustizia che sì li pilucca. «O anima», diss' io, «che par sì vaga di parlar meco, fa sì ch'io t'intenda, e te e me col tuo parlare appaga». «Femmina è nata, e non porta ancor benda», cominciò el, «che ti farà piacere la mia città, come ch'om la riprenda. Tu te n'andrai con questo antivedere: se nel mio mormorar prendesti errore, dichiareranti ancor le cose vere. Ma dì s'i' veggio qui colui che fore trasse le nove rime, cominciando 'Donne ch'avete intelletto d'amore'». E io a lui: «I' mi son un che, quando Amor mi spira, noto, e a quel modo ch'e' ditta dentro vo significando». «O frate, issa vegg' io», diss' elli, «il nodo che 'l Notaro e Guittone e me ritenne di qua dal dolce stil novo ch'i' odo! Io veggio ben come le vostre penne di retro al dittator sen vanno strette, che de le nostre certo non avvenne; e qual più a gradire oltre si mette, non vede più da l'uno a l'altro stilo»; e, quasi contentato, si tacette. Come li augei che vernan lungo 'l Nilo, alcuna volta in aere fanno schiera, poi volan più a fretta e vanno in filo, così tutta la gente che lì era, volgendo 'l viso, raffrettò suo passo, e per magrezza e per voler leggera. E come l'uom che di trottare è lasso, lascia andar li compagni, e sì passeggia fin che si sfoghi l'affollar del casso, sì lasciò trapassar la santa greggia Forese, e dietro meco sen veniva, dicendo: «Quando fia ch'io ti riveggia?». «Non so», rispuos' io lui, «quant' io mi viva; ma già non fïa il tornar mio tantosto, ch'io non sia col voler prima a la riva; però che 'l loco u' fui a viver posto, di giorno in giorno più di ben si spolpa, e a trista ruina par disposto». «Or va», diss' el; «che quei che più n'ha colpa, vegg' ïo a coda d'una bestia tratto inver' la valle ove mai non si scolpa. La bestia ad ogne passo va più ratto, crescendo sempre, fin ch'ella il percuote, e lascia il corpo vilmente disfatto. Non hanno molto a volger quelle ruote», e drizzò li occhi al ciel, «che ti fia chiaro ciò che 'l mio dir più dichiarar non puote. Tu ti rimani omai; ché 'l tempo è caro in questo regno, sì ch'io perdo troppo venendo teco sì a paro a paro». Qual esce alcuna volta di gualoppo lo cavalier di schiera che cavalchi, e va per farsi onor del primo intoppo, tal si partì da noi con maggior valchi; e io rimasi in via con esso i due che fuor del mondo sì gran marescalchi. E quando innanzi a noi intrato fue, che li occhi miei si fero a lui seguaci, come la mente a le parole sue, parvermi i rami gravidi e vivaci d'un altro pomo, e non molto lontani per esser pur allora vòlto in laci. Vidi gente sott' esso alzar le mani e gridar non so che verso le fronde, quasi bramosi fantolini e vani che pregano, e 'l pregato non risponde, ma, per fare esser ben la voglia acuta, tien alto lor disio e nol nasconde. Poi si partì sì come ricreduta; e noi venimmo al grande arbore adesso, che tanti prieghi e lagrime rifiuta. «Trapassate oltre sanza farvi presso: legno è più sù che fu morso da Eva, e questa pianta si levò da esso». Sì tra le frasche non so chi diceva; per che Virgilio e Stazio e io, ristretti, oltre andavam dal lato che si leva. «Ricordivi», dicea, «d'i maladetti nei nuvoli formati, che, satolli, Tesëo combatter co' doppi petti; e de li Ebrei ch'al ber si mostrar molli, per che no i volle Gedeon compagni, quando inver' Madïan discese i colli». Sì accostati a l'un d'i due vivagni passammo, udendo colpe de la gola seguite già da miseri guadagni. Poi, rallargati per la strada sola, ben mille passi e più ci portar oltre, contemplando ciascun sanza parola. «Che andate pensando sì voi sol tre?». sùbita voce disse; ond' io mi scossi come fan bestie spaventate e poltre. Drizzai la testa per veder chi fossi; e già mai non si videro in fornace vetri o metalli sì lucenti e rossi, com' io vidi un che dicea: «S'a voi piace montare in sù, qui si convien dar volta; quinci si va chi vuole andar per pace». L'aspetto suo m'avea la vista tolta; per ch'io mi volsi dietro a' miei dottori, com' om che va secondo ch'elli ascolta. E quale, annunziatrice de li albori, l'aura di maggio movesi e olezza, tutta impregnata da l'erba e da' fiori; tal mi senti' un vento dar per mezza la fronte, e ben senti' mover la piuma, che fé sentir d'ambrosïa l'orezza. E senti' dir: «Beati cui alluma tanto di grazia, che l'amor del gusto nel petto lor troppo disir non fuma, esurïendo sempre quanto è giusto!». CANTO XXV [Canto XXV, lo quale tratta de l'essenzia del settimo girone, dove si punisce la colpa e peccato contro a natura ed ermafrodito sotto il vizio de la lussuria; e prima tratta alquanto del precedente purgamento de' ghiotti, dove Stazio poeta fae una distinzione sopra la natura umana.] Ora era onde 'l salir non volea storpio; ché 'l sole avëa il cerchio di merigge lasciato al Tauro e la notte a lo Scorpio: per che, come fa l'uom che non s'affigge ma vassi a la via sua, che che li appaia, se di bisogno stimolo il trafigge, così intrammo noi per la callaia, uno innanzi altro prendendo la scala che per artezza i salitor dispaia. E quale il cicognin che leva l'ala per voglia di volare, e non s'attenta d'abbandonar lo nido, e giù la cala; tal era io con voglia accesa e spenta di dimandar, venendo infino a l'atto che fa colui ch'a dicer s'argomenta. Non lasciò, per l'andar che fosse ratto, lo dolce padre mio, ma disse: «Scocca l'arco del dir, che 'nfino al ferro hai tratto». Allor sicuramente apri' la bocca e cominciai: «Come si può far magro là dove l'uopo di nodrir non tocca?». «Se t'ammentassi come Meleagro si consumò al consumar d'un stizzo, non fora», disse, «a te questo sì agro; e se pensassi come, al vostro guizzo, guizza dentro a lo specchio vostra image, ciò che par duro ti parrebbe vizzo. Ma perché dentro a tuo voler t'adage, ecco qui Stazio; e io lui chiamo e prego che sia or sanator de le tue piage». «Se la veduta etterna li dislego», rispuose Stazio, «là dove tu sie, discolpi me non potert' io far nego». Poi cominciò: «Se le parole mie, figlio, la mente tua guarda e riceve, lume ti fiero al come che tu die. Sangue perfetto, che poi non si beve da l'assetate vene, e si rimane quasi alimento che di mensa leve, prende nel core a tutte membra umane virtute informativa, come quello ch'a farsi quelle per le vene vane. Ancor digesto, scende ov' è più bello tacer che dire; e quindi poscia geme sovr' altrui sangue in natural vasello. Ivi s'accoglie l'uno e l'altro insieme, l'un disposto a patire, e l'altro a fare per lo perfetto loco onde si preme; e, giunto lui, comincia ad operare coagulando prima, e poi avviva ciò che per sua matera fé constare. Anima fatta la virtute attiva qual d'una pianta, in tanto differente, che questa è in via e quella è già a riva, tanto ovra poi, che già si move e sente, come spungo marino; e indi imprende ad organar le posse ond' è semente. Or si spiega, figliuolo, or si distende la virtù ch'è dal cor del generante, dove natura a tutte membra intende. Ma come d'animal divegna fante, non vedi tu ancor: quest' è tal punto, che più savio di te fé già errante, sì che per sua dottrina fé disgiunto da l'anima il possibile intelletto, perché da lui non vide organo assunto. Apri a la verità che viene il petto; e sappi che, sì tosto come al feto l'articular del cerebro è perfetto, lo motor primo a lui si volge lieto sovra tant' arte di natura, e spira spirito novo, di vertù repleto, che ciò che trova attivo quivi, tira in sua sustanzia, e fassi un'alma sola, che vive e sente e sé in sé rigira. E perché meno ammiri la parola, guarda il calor del sole che si fa vino, giunto a l'omor che de la vite cola. Quando Làchesis non ha più del lino, solvesi da la carne, e in virtute ne porta seco e l'umano e 'l divino: l'altre potenze tutte quante mute; memoria, intelligenza e volontade in atto molto più che prima agute. Sanza restarsi, per sé stessa cade mirabilmente a l'una de le rive; quivi conosce prima le sue strade. Tosto che loco lì la circunscrive, la virtù formativa raggia intorno così e quanto ne le membra vive. E come l'aere, quand' è ben pïorno, per l'altrui raggio che 'n sé si reflette, di diversi color diventa addorno; così l'aere vicin quivi si mette e in quella forma ch'è in lui suggella virtüalmente l'alma che ristette; e simigliante poi a la fiammella che segue il foco là 'vunque si muta, segue lo spirto sua forma novella. Però che quindi ha poscia sua paruta, è chiamata ombra; e quindi organa poi ciascun sentire infino a la veduta. Quindi parliamo e quindi ridiam noi; quindi facciam le lagrime e ' sospiri che per lo monte aver sentiti puoi. Secondo che ci affliggono i disiri e li altri affetti, l'ombra si figura; e quest' è la cagion di che tu miri». E già venuto a l'ultima tortura s'era per noi, e vòlto a la man destra, ed eravamo attenti ad altra cura. Quivi la ripa fiamma in fuor balestra, e la cornice spira fiato in suso che la reflette e via da lei sequestra; ond' ir ne convenia dal lato schiuso ad uno ad uno; e io temëa 'l foco quinci, e quindi temeva cader giuso. Lo duca mio dicea: «Per questo loco si vuol tenere a li occhi stretto il freno, però ch'errar potrebbesi per poco». 'Summae Deus clementïae' nel seno al grande ardore allora udi' cantando, che di volger mi fé caler non meno; e vidi spirti per la fiamma andando; per ch'io guardava a loro e a' miei passi, compartendo la vista a quando a quando. Appresso il fine ch'a quell' inno fassi, gridavano alto: 'Virum non cognosco'; indi ricominciavan l'inno bassi. Finitolo, anco gridavano: «Al bosco si tenne Diana, ed Elice caccionne che di Venere avea sentito il tòsco». Indi al cantar tornavano; indi donne gridavano e mariti che fuor casti come virtute e matrimonio imponne. E questo modo credo che lor basti per tutto il tempo che 'l foco li abbruscia: con tal cura conviene e con tai pasti che la piaga da sezzo si ricuscia. CANTO XXVI [Canto XXVI, dove tratta di quello medesimo girone e del purgamento de' predetti peccati e vizi lussuriosi; dove nomina messer Guido Guinizzelli da Bologna e molti altri.] Mentre che sì per l'orlo, uno innanzi altro, ce n'andavamo, e spesso il buon maestro diceami: «Guarda: giovi ch'io ti scaltro»; feriami il sole in su l'omero destro, che già, raggiando, tutto l'occidente mutava in bianco aspetto di cilestro; e io facea con l'ombra più rovente parer la fiamma; e pur a tanto indizio vidi molt' ombre, andando, poner mente. Questa fu la cagion che diede inizio loro a parlar di me; e cominciarsi a dir: «Colui non par corpo fittizio»; poi verso me, quanto potëan farsi, certi si fero, sempre con riguardo di non uscir dove non fosser arsi. «O tu che vai, non per esser più tardo, ma forse reverente, a li altri dopo, rispondi a me che 'n sete e 'n foco ardo. Né solo a me la tua risposta è uopo; ché tutti questi n'hanno maggior sete che d'acqua fredda Indo o Etïopo. Dinne com' è che fai di te parete al sol, pur come tu non fossi ancora di morte intrato dentro da la rete». Sì mi parlava un d'essi; e io mi fora già manifesto, s'io non fossi atteso ad altra novità ch'apparve allora; ché per lo mezzo del cammino acceso venne gente col viso incontro a questa, la qual mi fece a rimirar sospeso. Lì veggio d'ogne parte farsi presta ciascun' ombra e basciarsi una con una sanza restar, contente a brieve festa; così per entro loro schiera bruna s'ammusa l'una con l'altra formica, forse a spïar lor via e lor fortuna. Tosto che parton l'accoglienza amica, prima che 'l primo passo lì trascorra, sopragridar ciascuna s'affatica: la nova gente: «Soddoma e Gomorra»; e l'altra: «Ne la vacca entra Pasife, perché 'l torello a sua lussuria corra». Poi, come grue ch'a le montagne Rife volasser parte, e parte inver' l'arene, queste del gel, quelle del sole schife, l'una gente sen va, l'altra sen vene; e tornan, lagrimando, a' primi canti e al gridar che più lor si convene; e raccostansi a me, come davanti, essi medesmi che m'avean pregato, attenti ad ascoltar ne' lor sembianti. Io, che due volte avea visto lor grato, incominciai: «O anime sicure d'aver, quando che sia, di pace stato, non son rimase acerbe né mature le membra mie di là, ma son qui meco col sangue suo e con le sue giunture. Quinci sù vo per non esser più cieco; donna è di sopra che m'acquista grazia, per che 'l mortal per vostro mondo reco. Ma se la vostra maggior voglia sazia tosto divegna, sì che 'l ciel v'alberghi ch'è pien d'amore e più ampio si spazia, ditemi, acciò ch'ancor carte ne verghi, chi siete voi, e chi è quella turba che se ne va di retro a' vostri terghi». Non altrimenti stupido si turba lo montanaro, e rimirando ammuta, quando rozzo e salvatico s'inurba, che ciascun' ombra fece in sua paruta; ma poi che furon di stupore scarche, lo qual ne li alti cuor tosto s'attuta, «Beato te, che de le nostre marche», ricominciò colei che pria m'inchiese, «per morir meglio, esperïenza imbarche! La gente che non vien con noi, offese di ciò per che già Cesar, trïunfando, "Regina" contra sé chiamar s'intese: però si parton "Soddoma" gridando, rimproverando a sé com' hai udito, e aiutan l'arsura vergognando. Nostro peccato fu ermafrodito; ma perché non servammo umana legge, seguendo come bestie l'appetito, in obbrobrio di noi, per noi si legge, quando partinci, il nome di colei che s'imbestiò ne le 'mbestiate schegge. Or sai nostri atti e di che fummo rei: se forse a nome vuo' saper chi semo, tempo non è di dire, e non saprei. Farotti ben di me volere scemo: son Guido Guinizzelli, e già mi purgo per ben dolermi prima ch'a lo stremo». Quali ne la tristizia di Ligurgo si fer due figli a riveder la madre, tal mi fec' io, ma non a tanto insurgo, quand' io odo nomar sé stesso il padre mio e de li altri miei miglior che mai rime d'amore usar dolci e leggiadre; e sanza udire e dir pensoso andai lunga fïata rimirando lui, né, per lo foco, in là più m'appressai. Poi che di riguardar pasciuto fui, tutto m'offersi pronto al suo servigio con l'affermar che fa credere altrui. Ed elli a me: «Tu lasci tal vestigio, per quel ch'i' odo, in me, e tanto chiaro, che Letè nol può tòrre né far bigio. Ma se le tue parole or ver giuraro, dimmi che è cagion per che dimostri nel dire e nel guardar d'avermi caro». E io a lui: «Li dolci detti vostri, che, quanto durerà l'uso moderno, faranno cari ancora i loro incostri». «O frate», disse, «questi ch'io ti cerno col dito», e additò un spirto innanzi, «fu miglior fabbro del parlar materno. Versi d'amore e prose di romanzi soverchiò tutti; e lascia dir li stolti che quel di Lemosì credon ch'avanzi. A voce più ch'al ver drizzan li volti, e così ferman sua oppinïone prima ch'arte o ragion per lor s'ascolti. Così fer molti antichi di Guittone, di grido in grido pur lui dando pregio, fin che l'ha vinto il ver con più persone. Or se tu hai sì ampio privilegio, che licito ti sia l'andare al chiostro nel quale è Cristo abate del collegio, falli per me un dir d'un paternostro, quanto bisogna a noi di questo mondo, dove poter peccar non è più nostro». Poi, forse per dar luogo altrui secondo che presso avea, disparve per lo foco, come per l'acqua il pesce andando al fondo. Io mi fei al mostrato innanzi un poco, e dissi ch'al suo nome il mio disire apparecchiava grazïoso loco. El cominciò liberamente a dire: «Tan m'abellis vostre cortes deman, qu'ieu no me puesc ni voill a vos cobrire. Ieu sui Arnaut, que plor e vau cantan; consiros vei la passada folor, e vei jausen lo joi qu'esper, denan. Ara vos prec, per aquella valor que vos guida al som de l'escalina, sovenha vos a temps de ma dolor!». Poi s'ascose nel foco che li affina. CANTO XXVII [Canto XXVII, dove tratta d'una visione che apparve a Dante in sogno, o come pervennero a la sommità del monte ed entraro nel Paradiso Terrestre chiamato paradiso delitiarum.] Sì come quando i primi raggi vibra là dove il suo fattor lo sangue sparse, cadendo Ibero sotto l'alta Libra, e l'onde in Gange da nona rïarse, sì stava il sole; onde 'l giorno sen giva, come l'angel di Dio lieto ci apparse. Fuor de la fiamma stava in su la riva, e cantava 'Beati mundo corde!' in voce assai più che la nostra viva. Poscia «Più non si va, se pria non morde, anime sante, il foco: intrate in esso, e al cantar di là non siate sorde», ci disse come noi li fummo presso; per ch'io divenni tal, quando lo 'ntesi, qual è colui che ne la fossa è messo. In su le man commesse mi protesi, guardando il foco e imaginando forte umani corpi già veduti accesi. Volsersi verso me le buone scorte; e Virgilio mi disse: «Figliuol mio, qui può esser tormento, ma non morte. Ricorditi, ricorditi! E se io sovresso Gerïon ti guidai salvo, che farò ora presso più a Dio? Credi per certo che se dentro a l'alvo di questa fiamma stessi ben mille anni, non ti potrebbe far d'un capel calvo. E se tu forse credi ch'io t'inganni, fatti ver' lei, e fatti far credenza con le tue mani al lembo d'i tuoi panni. Pon giù omai, pon giù ogne temenza; volgiti in qua e vieni: entra sicuro!». E io pur fermo e contra coscïenza. Quando mi vide star pur fermo e duro, turbato un poco disse: «Or vedi, figlio: tra Bëatrice e te è questo muro». Come al nome di Tisbe aperse il ciglio Piramo in su la morte, e riguardolla, allor che 'l gelso diventò vermiglio; così, la mia durezza fatta solla, mi volsi al savio duca, udendo il nome che ne la mente sempre mi rampolla. Ond' ei crollò la fronte e disse: «Come! volenci star di qua?»; indi sorrise come al fanciul si fa ch'è vinto al pome. Poi dentro al foco innanzi mi si mise, pregando Stazio che venisse retro, che pria per lunga strada ci divise. Sì com' fui dentro, in un bogliente vetro gittato mi sarei per rinfrescarmi, tant' era ivi lo 'ncendio sanza metro. Lo dolce padre mio, per confortarmi, pur di Beatrice ragionando andava, dicendo: «Li occhi suoi già veder parmi». Guidavaci una voce che cantava di là; e noi, attenti pur a lei, venimmo fuor là ove si montava. 'Venite, benedicti Patris mei', sonò dentro a un lume che lì era, tal che mi vinse e guardar nol potei. «Lo sol sen va», soggiunse, «e vien la sera; non v'arrestate, ma studiate il passo, mentre che l'occidente non si annera». Dritta salia la via per entro 'l sasso verso tal parte ch'io toglieva i raggi dinanzi a me del sol ch'era già basso. E di pochi scaglion levammo i saggi, che 'l sol corcar, per l'ombra che si spense, sentimmo dietro e io e li miei saggi. E pria che 'n tutte le sue parti immense fosse orizzonte fatto d'uno aspetto, e notte avesse tutte sue dispense, ciascun di noi d'un grado fece letto; ché la natura del monte ci affranse la possa del salir più e 'l diletto. Quali si stanno ruminando manse le capre, state rapide e proterve sovra le cime avante che sien pranse, tacite a l'ombra, mentre che 'l sol ferve, guardate dal pastor, che 'n su la verga poggiato s'è e lor di posa serve; e quale il mandrïan che fori alberga, lungo il pecuglio suo queto pernotta, guardando perché fiera non lo sperga; tali eravamo tutti e tre allotta, io come capra, ed ei come pastori, fasciati quinci e quindi d'alta grotta. Poco parer potea lì del di fori; ma, per quel poco, vedea io le stelle di lor solere e più chiare e maggiori. Sì ruminando e sì mirando in quelle, mi prese il sonno; il sonno che sovente, anzi che 'l fatto sia, sa le novelle. Ne l'ora, credo, che de l'orïente prima raggiò nel monte Citerea, che di foco d'amor par sempre ardente, giovane e bella in sogno mi parea donna vedere andar per una landa cogliendo fiori; e cantando dicea: «Sappia qualunque il mio nome dimanda ch'i' mi son Lia, e vo movendo intorno le belle mani a farmi una ghirlanda. Per piacermi a lo specchio, qui m'addorno; ma mia suora Rachel mai non si smaga dal suo miraglio, e siede tutto giorno. Ell' è d'i suoi belli occhi veder vaga com' io de l'addornarmi con le mani; lei lo vedere, e me l'ovrare appaga». E già per li splendori antelucani, che tanto a' pellegrin surgon più grati, quanto, tornando, albergan men lontani, le tenebre fuggian da tutti lati, e 'l sonno mio con esse; ond' io leva'mi, veggendo i gran maestri già levati. «Quel dolce pome che per tanti rami cercando va la cura de' mortali, oggi porrà in pace le tue fami». Virgilio inverso me queste cotali parole usò; e mai non furo strenne che fosser di piacere a queste iguali. Tanto voler sopra voler mi venne de l'esser sù, ch'ad ogne passo poi al volo mi sentia crescer le penne. Come la scala tutta sotto noi fu corsa e fummo in su 'l grado superno, in me ficcò Virgilio li occhi suoi, e disse: «Il temporal foco e l'etterno veduto hai, figlio; e se' venuto in parte dov' io per me più oltre non discerno. Tratto t'ho qui con ingegno e con arte; lo tuo piacere omai prendi per duce; fuor se' de l'erte vie, fuor se' de l'arte. Vedi lo sol che 'n fronte ti riluce; vedi l'erbette, i fiori e li arbuscelli che qui la terra sol da sé produce. Mentre che vegnan lieti li occhi belli che, lagrimando, a te venir mi fenno, seder ti puoi e puoi andar tra elli. Non aspettar mio dir più né mio cenno; libero, dritto e sano è tuo arbitrio, e fallo fora non fare a suo senno: per ch'io te sovra te corono e mitrio». CANTO XXVIII [Canto XXVIII, ove si tratta come la vita attiva distingue a l'auttore la natura del fiume di Letè, il quale trovò nel detto Paradiso, ove molto dimostra de la felicitade e del peccato di Adamo, e del modo e ordine del detto luogo.] Vago già di cercar dentro e dintorno la divina foresta spessa e viva, ch'a li occhi temperava il novo giorno, sanza più aspettar, lasciai la riva, prendendo la campagna lento lento su per lo suol che d'ogne parte auliva. Un'aura dolce, sanza mutamento avere in sé, mi feria per la fronte non di più colpo che soave vento; per cui le fronde, tremolando, pronte tutte quante piegavano a la parte u' la prim' ombra gitta il santo monte; non però dal loro esser dritto sparte tanto, che li augelletti per le cime lasciasser d'operare ogne lor arte; ma con piena letizia l'ore prime, cantando, ricevieno intra le foglie, che tenevan bordone a le sue rime, tal qual di ramo in ramo si raccoglie per la pineta in su 'l lito di Chiassi, quand' Ëolo scilocco fuor discioglie. Già m'avean trasportato i lenti passi dentro a la selva antica tanto, ch'io non potea rivedere ond' io mi 'ntrassi; ed ecco più andar mi tolse un rio, che 'nver' sinistra con sue picciole onde piegava l'erba che 'n sua ripa uscìo. Tutte l'acque che son di qua più monde, parrieno avere in sé mistura alcuna verso di quella, che nulla nasconde, avvegna che si mova bruna bruna sotto l'ombra perpetüa, che mai raggiar non lascia sole ivi né luna. Coi piè ristetti e con li occhi passai di là dal fiumicello, per mirare la gran varïazion d'i freschi mai; e là m'apparve, sì com' elli appare subitamente cosa che disvia per maraviglia tutto altro pensare, una donna soletta che si gia e cantando e scegliendo fior da fiore ond' era pinta tutta la sua via. «Deh, bella donna, che a' raggi d'amore ti scaldi, s'i' vo' credere a' sembianti che soglion esser testimon del core, vegnati in voglia di trarreti avanti», diss' io a lei, «verso questa rivera, tanto ch'io possa intender che tu canti. Tu mi fai rimembrar dove e qual era Proserpina nel tempo che perdette la madre lei, ed ella primavera». Come si volge, con le piante strette a terra e intra sé, donna che balli, e piede innanzi piede a pena mette, volsesi in su i vermigli e in su i gialli fioretti verso me, non altrimenti che vergine che li occhi onesti avvalli; e fece i prieghi miei esser contenti, sì appressando sé, che 'l dolce suono veniva a me co' suoi intendimenti. Tosto che fu là dove l'erbe sono bagnate già da l'onde del bel fiume, di levar li occhi suoi mi fece dono. Non credo che splendesse tanto lume sotto le ciglia a Venere, trafitta dal figlio fuor di tutto suo costume. Ella ridea da l'altra riva dritta, trattando più color con le sue mani, che l'alta terra sanza seme gitta. Tre passi ci facea il fiume lontani; ma Elesponto, là 've passò Serse, ancora freno a tutti orgogli umani, più odio da Leandro non sofferse per mareggiare intra Sesto e Abido, che quel da me perch' allor non s'aperse. «Voi siete nuovi, e forse perch' io rido», cominciò ella, «in questo luogo eletto a l'umana natura per suo nido, maravigliando tienvi alcun sospetto; ma luce rende il salmo Delectasti, che puote disnebbiar vostro intelletto. E tu che se' dinanzi e mi pregasti, dì s'altro vuoli udir; ch'i' venni presta ad ogne tua question tanto che basti». «L'acqua», diss' io, «e 'l suon de la foresta impugnan dentro a me novella fede di cosa ch'io udi' contraria a questa». Ond' ella: «Io dicerò come procede per sua cagion ciò ch'ammirar ti face, e purgherò la nebbia che ti fiede. Lo sommo Ben, che solo esso a sé piace, fé l'uom buono e a bene, e questo loco diede per arr' a lui d'etterna pace. Per sua difalta qui dimorò poco; per sua difalta in pianto e in affanno cambiò onesto riso e dolce gioco. Perché 'l turbar che sotto da sé fanno l'essalazion de l'acqua e de la terra, che quanto posson dietro al calor vanno, a l'uomo non facesse alcuna guerra, questo monte salìo verso 'l ciel tanto, e libero n'è d'indi ove si serra. Or perché in circuito tutto quanto l'aere si volge con la prima volta, se non li è rotto il cerchio d'alcun canto, in questa altezza ch'è tutta disciolta ne l'aere vivo, tal moto percuote, e fa sonar la selva perch' è folta; e la percossa pianta tanto puote, che de la sua virtute l'aura impregna e quella poi, girando, intorno scuote; e l'altra terra, secondo ch'è degna per sé e per suo ciel, concepe e figlia di diverse virtù diverse legna. Non parrebbe di là poi maraviglia, udito questo, quando alcuna pianta sanza seme palese vi s'appiglia. E saper dei che la campagna santa dove tu se', d'ogne semenza è piena, e frutto ha in sé che di là non si schianta. L'acqua che vedi non surge di vena che ristori vapor che gel converta, come fiume ch'acquista e perde lena; ma esce di fontana salda e certa, che tanto dal voler di Dio riprende, quant' ella versa da due parti aperta. Da questa parte con virtù discende che toglie altrui memoria del peccato; da l'altra d'ogne ben fatto la rende. Quinci Letè; così da l'altro lato Eünoè si chiama, e non adopra se quinci e quindi pria non è gustato: a tutti altri sapori esto è di sopra. E avvegna ch'assai possa esser sazia la sete tua perch' io più non ti scuopra, darotti un corollario ancor per grazia; né credo che 'l mio dir ti sia men caro, se oltre promession teco si spazia. Quelli ch'anticamente poetaro l'età de l'oro e suo stato felice, forse in Parnaso esto loco sognaro. Qui fu innocente l'umana radice; qui primavera sempre e ogne frutto; nettare è questo di che ciascun dice». Io mi rivolsi 'n dietro allora tutto a' miei poeti, e vidi che con riso udito avëan l'ultimo costrutto; poi a la bella donna torna' il viso. CANTO XXIX [Canto XXIX, dove si tratta sì come l'auttore contristato si conduoleva e come vide li sette doni del Santo Spirito e Cristo e la celestiale corte in forma di certe figure.] Cantando come donna innamorata, continüò col fin di sue parole: 'Beati quorum tecta sunt peccata!'. E come ninfe che si givan sole per le salvatiche ombre, disïando qual di veder, qual di fuggir lo sole, allor si mosse contra 'l fiume, andando su per la riva; e io pari di lei, picciol passo con picciol seguitando. Non eran cento tra ' suoi passi e ' miei, quando le ripe igualmente dier volta, per modo ch'a levante mi rendei. Né ancor fu così nostra via molta, quando la donna tutta a me si torse, dicendo: «Frate mio, guarda e ascolta». Ed ecco un lustro sùbito trascorse da tutte parti per la gran foresta, tal che di balenar mi mise in forse. Ma perché 'l balenar, come vien, resta, e quel, durando, più e più splendeva, nel mio pensier dicea: 'Che cosa è questa?'. E una melodia dolce correva per l'aere luminoso; onde buon zelo mi fé riprender l'ardimento d'Eva, che là dove ubidia la terra e 'l cielo, femmina, sola e pur testé formata, non sofferse di star sotto alcun velo; sotto 'l qual se divota fosse stata, avrei quelle ineffabili delizie sentite prima e più lunga fïata. Mentr' io m'andava tra tante primizie de l'etterno piacer tutto sospeso, e disïoso ancora a più letizie, dinanzi a noi, tal quale un foco acceso, ci si fé l'aere sotto i verdi rami; e 'l dolce suon per canti era già inteso. O sacrosante Vergini, se fami, freddi o vigilie mai per voi soffersi, cagion mi sprona ch'io mercé vi chiami. Or convien che Elicona per me versi, e Uranìe m'aiuti col suo coro forti cose a pensar mettere in versi. Poco più oltre, sette alberi d'oro falsava nel parere il lungo tratto del mezzo ch'era ancor tra noi e loro; ma quand' i' fui sì presso di lor fatto, che l'obietto comun, che 'l senso inganna, non perdea per distanza alcun suo atto, la virtù ch'a ragion discorso ammanna, sì com' elli eran candelabri apprese, e ne le voci del cantare 'Osanna'. Di sopra fiammeggiava il bello arnese più chiaro assai che luna per sereno di mezza notte nel suo mezzo mese. Io mi rivolsi d'ammirazion pieno al buon Virgilio, ed esso mi rispuose con vista carca di stupor non meno. Indi rendei l'aspetto a l'alte cose che si movieno incontr' a noi sì tardi, che foran vinte da novelle spose. La donna mi sgridò: «Perché pur ardi sì ne l'affetto de le vive luci, e ciò che vien di retro a lor non guardi?». Genti vid' io allor, come a lor duci, venire appresso, vestite di bianco; e tal candor di qua già mai non fuci. L'acqua imprendëa dal sinistro fianco, e rendea me la mia sinistra costa, s'io riguardava in lei, come specchio anco. Quand' io da la mia riva ebbi tal posta, che solo il fiume mi facea distante, per veder meglio ai passi diedi sosta, e vidi le fiammelle andar davante, lasciando dietro a sé l'aere dipinto, e di tratti pennelli avean sembiante; sì che lì sopra rimanea distinto di sette liste, tutte in quei colori onde fa l'arco il Sole e Delia il cinto. Questi ostendali in dietro eran maggiori che la mia vista; e, quanto a mio avviso, diece passi distavan quei di fori. Sotto così bel ciel com' io diviso, ventiquattro seniori, a due a due, coronati venien di fiordaliso. Tutti cantavan: «Benedicta tue ne le figlie d'Adamo, e benedette sieno in etterno le bellezze tue!». Poscia che i fiori e l'altre fresche erbette a rimpetto di me da l'altra sponda libere fuor da quelle genti elette, sì come luce luce in ciel seconda, vennero appresso lor quattro animali, coronati ciascun di verde fronda. Ognuno era pennuto di sei ali; le penne piene d'occhi; e li occhi d'Argo, se fosser vivi, sarebber cotali. A descriver lor forme più non spargo rime, lettor; ch'altra spesa mi strigne, tanto ch'a questa non posso esser largo; ma leggi Ezechïel, che li dipigne come li vide da la fredda parte venir con vento e con nube e con igne; e quali i troverai ne le sue carte, tali eran quivi, salvo ch'a le penne Giovanni è meco e da lui si diparte. Lo spazio dentro a lor quattro contenne un carro, in su due rote, trïunfale, ch'al collo d'un grifon tirato venne. Esso tendeva in sù l'una e l'altra ale tra la mezzana e le tre e tre liste, sì ch'a nulla, fendendo, facea male. Tanto salivan che non eran viste; le membra d'oro avea quant' era uccello, e bianche l'altre, di vermiglio miste. Non che Roma di carro così bello rallegrasse Affricano, o vero Augusto, ma quel del Sol saria pover con ello; quel del Sol che, svïando, fu combusto per l'orazion de la Terra devota, quando fu Giove arcanamente giusto. Tre donne in giro da la destra rota venian danzando; l'una tanto rossa ch'a pena fora dentro al foco nota; l'altr' era come se le carni e l'ossa fossero state di smeraldo fatte; la terza parea neve testé mossa; e or parëan da la bianca tratte, or da la rossa; e dal canto di questa l'altre toglien l'andare e tarde e ratte. Da la sinistra quattro facean festa, in porpore vestite, dietro al modo d'una di lor ch'avea tre occhi in testa. Appresso tutto il pertrattato nodo vidi due vecchi in abito dispari, ma pari in atto e onesto e sodo. L'un si mostrava alcun de' famigliari di quel sommo Ipocràte che natura a li animali fé ch'ell' ha più cari; mostrava l'altro la contraria cura con una spada lucida e aguta, tal che di qua dal rio mi fé paura. Poi vidi quattro in umile paruta; e di retro da tutti un vecchio solo venir, dormendo, con la faccia arguta. E questi sette col primaio stuolo erano abitüati, ma di gigli dintorno al capo non facëan brolo, anzi di rose e d'altri fior vermigli; giurato avria poco lontano aspetto che tutti ardesser di sopra da' cigli. E quando il carro a me fu a rimpetto, un tuon s'udì, e quelle genti degne parvero aver l'andar più interdetto, fermandosi ivi con le prime insegne. CANTO XXX [Canto XXX, dove narra come Beatrice apparve a Dante e Virgilio il lasciò, e lo recitare per l'alta donna de la incostanza e difetto di Dante, e qui l'auttore piange i suoi difetti con vergogna compuntiva.] Quando il settentrïon del primo cielo, che né occaso mai seppe né orto né d'altra nebbia che di colpa velo, e che faceva lì ciascuno accorto di suo dover, come 'l più basso face qual temon gira per venire a porto, fermo s'affisse: la gente verace, venuta prima tra 'l grifone ed esso, al carro volse sé come a sua pace; e un di loro, quasi da ciel messo, 'Veni, sponsa, de Libano' cantando gridò tre volte, e tutti li altri appresso. Quali i beati al novissimo bando surgeran presti ognun di sua caverna, la revestita voce alleluiando, cotali in su la divina basterna si levar cento, ad vocem tanti senis, ministri e messaggier di vita etterna. Tutti dicean: 'Benedictus qui venis!', e fior gittando e di sopra e dintorno, 'Manibus, oh, date lilïa plenis!'. Io vidi già nel cominciar del giorno la parte orïental tutta rosata, e l'altro ciel di bel sereno addorno; e la faccia del sol nascere ombrata, sì che per temperanza di vapori l'occhio la sostenea lunga fïata: così dentro una nuvola di fiori che da le mani angeliche saliva e ricadeva in giù dentro e di fori, sovra candido vel cinta d'uliva donna m'apparve, sotto verde manto vestita di color di fiamma viva. E lo spirito mio, che già cotanto tempo era stato ch'a la sua presenza non era di stupor, tremando, affranto, sanza de li occhi aver più conoscenza, per occulta virtù che da lei mosse, d'antico amor sentì la gran potenza. Tosto che ne la vista mi percosse l'alta virtù che già m'avea trafitto prima ch'io fuor di püerizia fosse, volsimi a la sinistra col respitto col quale il fantolin corre a la mamma quando ha paura o quando elli è afflitto, per dicere a Virgilio: 'Men che dramma di sangue m'è rimaso che non tremi: conosco i segni de l'antica fiamma'. Ma Virgilio n'avea lasciati scemi di sé, Virgilio dolcissimo patre, Virgilio a cui per mia salute die'mi; né quantunque perdeo l'antica matre, valse a le guance nette di rugiada che, lagrimando, non tornasser atre. «Dante, perché Virgilio se ne vada, non pianger anco, non piangere ancora; ché pianger ti conven per altra spada». Quasi ammiraglio che in poppa e in prora viene a veder la gente che ministra per li altri legni, e a ben far l'incora; in su la sponda del carro sinistra, quando mi volsi al suon del nome mio, che di necessità qui si registra, vidi la donna che pria m'appario velata sotto l'angelica festa, drizzar li occhi ver' me di qua dal rio. Tutto che 'l vel che le scendea di testa, cerchiato de le fronde di Minerva, non la lasciasse parer manifesta, regalmente ne l'atto ancor proterva continüò come colui che dice e 'l più caldo parlar dietro reserva: «Guardaci ben! Ben son, ben son Beatrice. Come degnasti d'accedere al monte? non sapei tu che qui è l'uom felice?». Li occhi mi cadder giù nel chiaro fonte; ma veggendomi in esso, i trassi a l'erba, tanta vergogna mi gravò la fronte. Così la madre al figlio par superba, com' ella parve a me; perché d'amaro sente il sapor de la pietade acerba. Ella si tacque; e li angeli cantaro di sùbito 'In te, Domine, speravi'; ma oltre 'pedes meos' non passaro. Sì come neve tra le vive travi per lo dosso d'Italia si congela, soffiata e stretta da li venti schiavi, poi, liquefatta, in sé stessa trapela, pur che la terra che perde ombra spiri, sì che par foco fonder la candela; così fui sanza lagrime e sospiri anzi 'l cantar di quei che notan sempre dietro a le note de li etterni giri; ma poi che 'ntesi ne le dolci tempre lor compatire a me, par che se detto avesser: 'Donna, perché sì lo stempre?', lo gel che m'era intorno al cor ristretto, spirito e acqua fessi, e con angoscia de la bocca e de li occhi uscì del petto. Ella, pur ferma in su la detta coscia del carro stando, a le sustanze pie volse le sue parole così poscia: «Voi vigilate ne l'etterno die, sì che notte né sonno a voi non fura passo che faccia il secol per sue vie; onde la mia risposta è con più cura che m'intenda colui che di là piagne, perché sia colpa e duol d'una misura. Non pur per ovra de le rote magne, che drizzan ciascun seme ad alcun fine secondo che le stelle son compagne, ma per larghezza di grazie divine, che sì alti vapori hanno a lor piova, che nostre viste là non van vicine, questi fu tal ne la sua vita nova virtüalmente, ch'ogne abito destro fatto averebbe in lui mirabil prova. Ma tanto più maligno e più silvestro si fa 'l terren col mal seme e non cólto, quant' elli ha più di buon vigor terrestro. Alcun tempo il sostenni col mio volto: mostrando li occhi giovanetti a lui, meco il menava in dritta parte vòlto. Sì tosto come in su la soglia fui di mia seconda etade e mutai vita, questi si tolse a me, e diessi altrui. Quando di carne a spirto era salita, e bellezza e virtù cresciuta m'era, fu' io a lui men cara e men gradita; e volse i passi suoi per via non vera, imagini di ben seguendo false, che nulla promession rendono intera. Né l'impetrare ispirazion mi valse, con le quali e in sogno e altrimenti lo rivocai: sì poco a lui ne calse! Tanto giù cadde, che tutti argomenti a la salute sua eran già corti, fuor che mostrarli le perdute genti. Per questo visitai l'uscio d'i morti, e a colui che l'ha qua sù condotto, li preghi miei, piangendo, furon porti. Alto fato di Dio sarebbe rotto, se Letè si passasse e tal vivanda fosse gustata sanza alcuno scotto di pentimento che lagrime spanda». CANTO XXXI [Canto XXXI, ove si tratta sì come Beatrice riprende l'auttore de le commesse colpe, e come la donna che avante li apparve il bagna.] «O tu che se' di là dal fiume sacro», volgendo suo parlare a me per punta, che pur per taglio m'era paruto acro, ricominciò, seguendo sanza cunta, «dì, dì se questo è vero; a tanta accusa tua confession conviene esser congiunta». Era la mia virtù tanto confusa, che la voce si mosse, e pria si spense che da li organi suoi fosse dischiusa. Poco sofferse; poi disse: «Che pense? Rispondi a me; ché le memorie triste in te non sono ancor da l'acqua offense». Confusione e paura insieme miste mi pinsero un tal «sì» fuor de la bocca, al quale intender fuor mestier le viste. Come balestro frange, quando scocca da troppa tesa, la sua corda e l'arco, e con men foga l'asta il segno tocca, sì scoppia' io sottesso grave carco, fuori sgorgando lagrime e sospiri, e la voce allentò per lo suo varco. Ond' ella a me: «Per entro i mie' disiri, che ti menavano ad amar lo bene di là dal qual non è a che s'aspiri, quai fossi attraversati o quai catene trovasti, per che del passare innanzi dovessiti così spogliar la spene? E quali agevolezze o quali avanzi ne la fronte de li altri si mostraro, per che dovessi lor passeggiare anzi?». Dopo la tratta d'un sospiro amaro, a pena ebbi la voce che rispuose, e le labbra a fatica la formaro. Piangendo dissi: «Le presenti cose col falso lor piacer volser miei passi, tosto che 'l vostro viso si nascose». Ed ella: «Se tacessi o se negassi ciò che confessi, non fora men nota la colpa tua: da tal giudice sassi! Ma quando scoppia de la propria gota l'accusa del peccato, in nostra corte rivolge sé contra 'l taglio la rota. Tuttavia, perché mo vergogna porte del tuo errore, e perché altra volta, udendo le serene, sie più forte, pon giù il seme del piangere e ascolta: sì udirai come in contraria parte mover dovieti mia carne sepolta. Mai non t'appresentò natura o arte piacer, quanto le belle membra in ch'io rinchiusa fui, e che so' 'n terra sparte; e se 'l sommo piacer sì ti fallio per la mia morte, qual cosa mortale dovea poi trarre te nel suo disio? Ben ti dovevi, per lo primo strale de le cose fallaci, levar suso di retro a me che non era più tale. Non ti dovea gravar le penne in giuso, ad aspettar più colpo, o pargoletta o altra novità con sì breve uso. Novo augelletto due o tre aspetta; ma dinanzi da li occhi d'i pennuti rete si spiega indarno o si saetta». Quali fanciulli, vergognando, muti con li occhi a terra stannosi, ascoltando e sé riconoscendo e ripentuti, tal mi stav' io; ed ella disse: «Quando per udir se' dolente, alza la barba, e prenderai più doglia riguardando». Con men di resistenza si dibarba robusto cerro, o vero al nostral vento o vero a quel de la terra di Iarba, ch'io non levai al suo comando il mento; e quando per la barba il viso chiese, ben conobbi il velen de l'argomento. E come la mia faccia si distese, posarsi quelle prime creature da loro aspersïon l'occhio comprese; e le mie luci, ancor poco sicure, vider Beatrice volta in su la fiera ch'è sola una persona in due nature. Sotto 'l suo velo e oltre la rivera vincer pariemi più sé stessa antica, vincer che l'altre qui, quand' ella c'era. Di penter sì mi punse ivi l'ortica, che di tutte altre cose qual mi torse più nel suo amor, più mi si fé nemica. Tanta riconoscenza il cor mi morse, ch'io caddi vinto; e quale allora femmi, salsi colei che la cagion mi porse. Poi, quando il cor virtù di fuor rendemmi, la donna ch'io avea trovata sola sopra me vidi, e dicea: «Tiemmi, tiemmi!». Tratto m'avea nel fiume infin la gola, e tirandosi me dietro sen giva sovresso l'acqua lieve come scola. Quando fui presso a la beata riva, 'Asperges me' sì dolcemente udissi, che nol so rimembrar, non ch'io lo scriva. La bella donna ne le braccia aprissi; abbracciommi la testa e mi sommerse ove convenne ch'io l'acqua inghiottissi. Indi mi tolse, e bagnato m'offerse dentro a la danza de le quattro belle; e ciascuna del braccio mi coperse. «Noi siam qui ninfe e nel ciel siamo stelle; pria che Beatrice discendesse al mondo, fummo ordinate a lei per sue ancelle. Merrenti a li occhi suoi; ma nel giocondo lume ch'è dentro aguzzeranno i tuoi le tre di là, che miran più profondo». Così cantando cominciaro; e poi al petto del grifon seco menarmi, ove Beatrice stava volta a noi. Disser: «Fa che le viste non risparmi; posto t'avem dinanzi a li smeraldi ond' Amor già ti trasse le sue armi». Mille disiri più che fiamma caldi strinsermi li occhi a li occhi rilucenti, che pur sopra 'l grifone stavan saldi. Come in lo specchio il sol, non altrimenti la doppia fiera dentro vi raggiava, or con altri, or con altri reggimenti. Pensa, lettor, s'io mi maravigliava, quando vedea la cosa in sé star queta, e ne l'idolo suo si trasmutava. Mentre che piena di stupore e lieta l'anima mia gustava di quel cibo che, saziando di sé, di sé asseta, sé dimostrando di più alto tribo ne li atti, l'altre tre si fero avanti, danzando al loro angelico caribo
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